Poggiali: “La mia vita senza rimpianti. Ora faccio il Riders Coach e il papà”

Il pilota due volte Campione del Mondo in 125 e 250 ripercorre una carriera breve ma vincente. I paragoni tra passato e presente, il suo nuovo ruolo, la sicurezza e quel grazie a Valentino Rossi…

Claudio Pavanello

È bello vedere Manuel Poggiali, Riders Coach del Team Gresini ed attivissimo nei corsi di guida, in gran forma e felice. Il sanmarinese è stato un pilota straordinario, un incredibile mix tra talento e autodisciplina, capace tra 2001 e 2003 di ottenere un primo e secondo posto nel mondiale 125 e aggiudicarsi il titolo della 250 all’esordio, cosa più unica che rara in quel periodo. Non c’è pilota italiano che abbia fatto tanto in così poco tempo. Poi, improvvisamente, si è appannata la luce: la decisione di rimanere fedele nel 2004 al contratto con Aprilia e non salire in MotoGP è probabilmente stata una importante “sliding door”. Il clima perfetto che aveva portato al trionfo del 2003 si rompe improvvisamente, travolto anche dalle difficoltà economiche della casa di Noale. Bissare il titolo è un obiettivo che si dimostra subito irrealizzabile, la stagione termina con una sola vittoria e molte polemiche. Segue il ritorno in 125 con la stessa Gilera ufficiale che gli aveva regalato il mondiale quattro anni prima, ma i podi latitano. Nel 2006 rientra in 250 con Ktm, ma senza risultati di rilievo, decidendo di prendersi un anno sabbatico. Nel 2008 Manuel riprova in 250 con una Gilera del Team Campetella, ma a metà stagione, a soli 25 anni, annuncia il ritiro dalle competizioni.

L’addio alle corse

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“Dopo il 2004 – racconta Manuel – ho continuato con altre difficoltà, meno stimoli, fondamentalmente non ho saputo accettare il fatto che potevo perdere, e ciò mi ha progressivamente levato quella concentrazione assoluta che serve per praticare uno sport a livello mondiale. Inoltre, a fine carriera, qualche caduta particolarmente pesante mi ha acceso delle spie. La serenità è fondamentale, è quello che ti permette di essere performante. Io allora non ho gestito le situazioni nel migliore dei modi, non me ne faccio una colpa, mi ha dato comunque spunti per crescere, non avere vinto il terzo mondiale non fa di me una persona peggiore. Ho fatto il mio percorso, sono orgoglioso degli obiettivi raggiunti, soprattutto pensando da dove sono partito, e sono felice di fare ancora parte di questo mondo, dove ho un lavoro che mi diverte”.

In cosa consiste il ruolo di Riders Coach?
“Il lavoro si divide in varie parti. Già da casa viene fatta una analisi sulla storicità delle gare precedenti, le caratteristiche del tracciato, i possibili punti deboli per i nostri piloti, e da questo si traggono indicazioni su come iniziare il lavoro. In pista, abbiamo strumenti e tecnologia per analizzare i dati, cui si aggiunge la mia esperienza sul campo che trasferisco a piloti e tecnici”.

Come avete vissuto la scomparsa di Gresini?
“La morte di Fausto ha colto tutti noi impreparati, anche perché ci aggrappavamo a piccoli segnali di miglioramento. Quando è arrivata la notizia, mentre eravamo a Valencia, è stato un momento tristissimo, non sapevamo cosa fare. Poi la Famiglia ha deciso di continuare e portare avanti, come Fausto avrebbe voluto, il lavoro, unendo ancora di più le forze”.

Cosa è cambiato tra 125 e 250 rispetto Moto3 e Moto2?
“Direi che la 125 probabilmente dava al pilota più spunti dal punto di vista della sensibilità di guida, nel capire come interpretare le sensazioni. La Moto3, sebbene abbia comunque poco supporto elettronico, è più facile da portare al limite. In ogni caso, è rimasta immutata la caratteristica essenziale di sapere sgomitare e tirare la volata. La due e mezzo ai miei tempi era un bel salto rispetto la 125, insegnava veramente la gestione della gara, dato che il degrado delle gomme e la sensibilità alla variazione del peso non permettevano di andare sempre al 110%. Non che ciò non accada in Moto2, ma l’uguale motorizzazione e le performance molto simili tra i telai la rendono forse un po’ meno tecnica. Però, dato che un vincitore c’è sempre, vuol dire che quel pilota, alla fine dei giochi, è stato il migliore”.

Ti viene voglia di risalire in moto? Saresti in grado di qualificarti in una gara di Moto2?
“Io vado ancora in moto organizzando corsi di guida sportiva e sicura, ma anche in strada, mi piace farlo, la moto è uno stile di vita. Per quanto riguarda l’agonismo, è un capitolo chiuso, ho dato abbastanza con grandi sforzi e impegno, vincendo tanto in pochi anni, e sono molto orgoglioso di quanto realizzato: a 14 anni ero ancora in minimoto, a 16 debuttai nel mondiale ed a 18 ho conquistato il primo titolo. Comunque, per rispondere alla domanda, si, credo che riuscirei a qualificarmi”.

MotoGP che vanno a 360 all’ora, grupponi in Moto3: cosa pensi della sicurezza attuale? Bisognerebbe tornare ad erba e ghiaia?
“Senza dubbio, la tecnologia sta dando un grande aiuto alla sicurezza in termini di abbigliamento e protezioni, però gli spazi di fuga sono sempre gli stessi a fronte di moto velocissime. In più di una occasione le MotoGP sono finite dietro le protezioni, un segnale che non va sottovalutato. Inoltre, le riasfaltature rendono le piste un biliardo, ma spesso viene trascurato il crearsi di uno scalino con il cordolo, che specie con le Moto3, molto rigide e con gomme strette, facilita la perdita del posteriore. Avere levato ghiaia ed erba permette di non buttare una gara, ma d’altra parte accorcia ancora lo spazio di decelerazione”

Torniamo ai tuoi tempi: più bello il titolo 125 o 250?
“Belli entrambi. Quello in 125 è stata la realizzazione di una cosa che andava oltre il sogno di partecipare al mondiale come i miei idoli: vincere è stato infatti ancora più difficile, perché ha significato oltrepassare i propri limiti, il proprio pensiero. Arrivare in Aprilia ha invece coinciso con l’anno più bello della mia carriera: moto fantastica, posto fantastico, gente con cui lavoravo fantastica, azienda e presidente alla spalle che mi volevano bene. Una situazione da sogno che mi ha portato a vincere all’esordio in 250, qualcosa di impensabile”.

Poi nel 2004 cosa è successo?
“Il 2004 è stato un periodo complicato, in cui di fatto Aprilia era fallita. C’era una grande tensione, che associata a difficoltà personali, scelte sbagliate, preparazioni non avvenute nel migliore dei modi, ci ha impedito di essere competitivi. Quando in Brasile è arrivato il materiale che chiedevo da tempo, abbiamo conquistato subito pole e vittoria davanti a Pedrosa. Si è trattato di una grande rivincita personale, ma sull’onda del nervosismo ho fatto delle dichiarazioni non proprio esaltanti, che non sono piaciute ad Aprilia, la quale oltre a multarmi pesantemente, mi ha voluto punire levandomi gli aggiornamenti e tornando al materiale di prima, che non era quello dell’anno precedente. Poi tutto si è ulteriormente complicato con l’infortunio in Qatar giocando a squash, con due gare saltate”.

Chi sono piloti più forti con cui hai combattuto?
“Ho corso con tanti fuoriclasse, come Lorenzo, Pedrosa, Davis, Stoner, Dovizioso, Simoncelli, Pasini. Quello con cui ho avuto un po’ più di conflitto è stato Toni Elias, un avversario tosto perché irruento, aggressivo, sempre al limite della correttezza. E’ stato un degno avversario che mi ha fatto sudare. Ci siamo visti recentemente a Barcellona, oggi viviamo con più serenità il paddock ed è bello scherzare sulle tensioni di un tempo”.

L’unico “sopravvissuto” dei tuoi tempi è Rossi. Cosa pensi del suo momento attuale?
“Valentino è un esempio per qualsiasi motociclista, ha creato una passione enorme da parte di un pubblico più ampio, avvicinando tante persone al motociclismo, alcune magari anche in maniera superficiale. Oggi vive una situazione difficile non essendo più tra i potenziali vincitori, ma ciò non toglie sia ancora un pilota di tutto rispetto, che ha il diritto, dopo nove titoli, di decidere con tranquillità il suo futuro”.

Se trovassi tu un principe arabo che ti chiede di fare un team, che moto e che piloti sceglieresti?
“La scelta della moto è difficile, starei di cuore su una moto italiana, perché i miei successi sono arrivati con moto del nostro Paese. Per i piloti direi Acosta, perché mi piace ragionare a livello di giovani. Però Raul Fernandez sta facendo qualcosa di eccezionale in Moto2, ed anche se ancora acerbo lo preferirei. Comunque, visto che l’arabo ha tanti soldi da spendere farei tre moto: Fernandez, Bastianini e Di Giannantonio”.

Come va il lavoro di papà? Se i tuoi figli volessero correre in moto?
“Bene! Mi piacerebbe vederli crescere di più, ma il lavoro mi porta spesso lontano, anche se per scelta con il primogenito ho deciso di rimanere a casa e dare una mano alla moglie. Oggi hanno 12 e 6 anni e li vedo crescere a sprazzi. Se volessero correre in moto gli direi di non farlo, perché il papà consiglia sempre cose giuste, ma se insistessero l’importante sarebbe affrontare l’avventura con massimo impegno e dedizione, consapevoli di rischi e pericoli. Sarei comunque contentissimo se decidessero di praticare sport a livello agonistico”.

Fonte: https://www.gazzetta.it

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